In un precedente articolo ho pronosticato che il self-publishing porterà a una rivoluzione copernicana.
Lo scrittore, che adesso è l’ultimo ruota del carro editoriale, prenderà le redini. Conterà non più chi confeziona i contenuti ma chi li produce, e il ruolo dell’editore diventerà il più delle volte superfluo.
Questo cambiamento migliorerà la situazione economica degli scrittori? Non credo, anzi sono convinto che stiamo assistendo all’inesorabile scomparsa dello scrittore di professione.
Lo scrittore come libero professionista è una figura relativamente recente, che si afferma per la prima volta in Inghilterra e Francia tra Sette e Ottocento a causa di due fattori: la formazione di un vasto pubblico letterario, che genera una crescente domanda di romanzi, giornali ed enciclopedie, e la tutela della proprietà intellettuale. La prima legge sul copyright è inglese e risale al 1710, ma gli altri stati europei si adegueranno solo un secolo dopo.
Nella prima metà dell’Ottocento la domanda di letteratura è tale che gli scrittori dell’epoca non riescono a soddisfarla. Alexandre Dumas padre deve ricorrere a oltre settanta ghostwriter, mentre Balzac scrive giorno e notte, bevendo quantità spropositate di caffè, fino ad ammazzarsi di lavoro. Ovviamente i guadagni sono alti, spesso altissimi. Mai finora gli scrittori hanno goduto di un benessere e una popolarità così elevati.
Come mai le cose sono cambiate radicalmente? Ciò è dovuto al mutamento dei fattori di cui sopra. Innanzitutto dal Novecento il pubblico letterario si è progressivamente ristretto a causa dell’affermarsi di media come il cinema, i fumetti, la televisione e infine videogiochi, Internet e social network. Inoltre a fronte di una domanda sempre più ridotta, l’offerta culturale è cresciuta a dismisura.
Grazie all’elevata scolarizzazione e alle facilitazioni tecnologiche, oggi tutti credono di poter diventare senza fatica scrittori, giornalisti, sceneggiatori, fotografi o registi. Tutti vogliono fare gli artisti o gli intellettuali, col risultato che sembra che nessuno lo sia più veramente.
Oggi internet consente a chiunque di esprimere il proprio pensiero: indubbiamente la figura dell’intellettuale si è democratizzata, perdendo però il prestigio del passato. E il mercato culturale viene sommerso da libri, canzoni o film che spesso non trovano consumatori interessati.
Si è formato così un vasto sottoproletariato intellettuale, quale mai prima nella storia. In un mercato asfittico, molte case editrici e redazioni giornalistiche sopravvivono solo grazie a collaboratori precari, che non di rado lavorano gratuitamente, spinti dal miraggio di ottenere il tesserino giornalistico, fare esperienza o assicurarsi un po’ di visibilità.
In secondo luogo, con l’avvento dei computer e di Internet il copyright è entrato in crisi. È diventato molto semplice realizzare copie e diffonderle online impunemente. Programmi di file sharing come Napster, eMule o BitTorrent e siti di file hosting come Megavideo hanno favorito l’affermarsi di una cultura della pirateria, che in paesi come Svezia o Germania ha espresso partiti politici e addirittura una forma di “religione” (il kopimismo).
Saggi come La fine del copyright di Smiers Joost e Van Schijndel Marieke o Abolire la proprietà intellettuale di Michele Boldrin e David K. Levine esaltano la diffusione gratuita della cultura, mentre un sito come Library.nu ha messo a disposizione centinaia di migliaia di ebook pirata, spesso fuori catalogo, e dopo la chiusura è stato paragonato alla Biblioteca di Alessandria. E poi ci sono autori come Vincenzo Latronico che ammettono candidamente sul Corriere della Sera di leggere anche loro ebook copiati illegalmente.
Ovviamente la stragrande maggioranza degli editori e scrittori protesta con vigore contro la pirateria, come già ha fatto l’industria discografica e cinematografica. Ma è bene ricordare che in passato era altresì scandalosa l’idea che dalla cultura si potesse trarre un profitto. Il primo a provarci fu il poeta Simonide, seguito dai Sofisti, che perciò furono soprannominati i “prostituti della cultura”.
Per millenni la consuetudine è stata che lo scrittore, il filosofo o l’umanista non traessero alcun guadagno dalle proprie opere. L’intellettuale era già ricco di famiglia oppure ricorreva a un mecenate o ancora si procurava pensioni, prebende e vitalizi vari. Alcuni seguivano l’esempio del Petrarca, dandosi alla carriera ecclesiastica e abbracciando gli ordini minori. Altri lavoravano come precettori, docenti, segretari o bibliotecari. Del resto mantenere un poeta a corte era uno status symbol come può esserlo oggi possedere una fuoriserie o uno yacht. Altri tempi.
Tralasciando queste considerazioni storiche, c’è da dubitare che gli sforzi di combattere la pirateria digitale porteranno al successo. Chiuso un sito se ne apre un altro, in un eterno rincorrersi tra guardie e ladri.
Ci aspetta con molta probabilità un futuro prossimo in cui egli ebook saranno letti per lo più gratuitamente. Come farà allora a sopravvivere lo scrittore? Di certo non può contare sui concerti e la vendita di t-shirt come i cantanti, né sui profitti del botteghino come attori e registi.
Già oggi è difficile radunare un pubblico di venti persone per un reading o una presentazione, figuriamoci se si dovesse far pagare.
La soluzione è che non c’è nessuna soluzione. La scrittura letteraria tornerà a essere un’attività a titolo prevalentemente gratuito e lo scrittore dovrà trovarsi un altro lavoro che gli permetta di campare.
Del resto già oggi, a parte pochissime eccezioni, gli scrittori italiani sopravvivono grazie al cosiddetto indotto, ossia traduzioni, collaborazioni editoriali, giornalismo, ghostwriting o corsi di scrittura creativa. E tralasciando i pochissimi megaseller, in Italia un libro di successo vende un migliaio di copie, che garantiscono non più di duemila euro di royalty. Giusto un rimborso spese.
È un bene o un male che la cultura divenga accessibile liberamente a tutti, che i romanzi non siano più delle merci e che lo scrittore non debba preoccuparsi di assecondare o meno i gusti del pubblico per vendere più copie? Non lo so, ma è indubbio che una simile rivoluzione porterà alla perdita di molti posti di lavoro (tipografi, editori, redattori, agenti letterari) e sicuramente tanti scrittori dovranno affrontare ristrettezze economiche.
Naturalmente il discorso si può estendere anche al settore giornalistico. In futuro l’informazione sarà online e principalmente gratuita. Viene da chiedersi se il giornalismo diventerà un hobby per blogger benestanti e chi si preoccuperà di sostenere il punto di vista dei meno abbienti. Di certo è sempre più diffusa la convinzione che il lavoro intellettuale sia un passatempo e che, quindi, non necessiti di particolari competenze né debba essere retribuito.
Stiamo ritornando al dilettantismo culturale dell’antichità e la selezione di classe è già in atto da tempo in questo settore. Chi è, infatti, il giornalista o l’editor che può permettersi a trentacinque anni e passa di lavorare gratis o percepire una miseria pur di fare curriculum? Un figlio di papà. I meno fortunati hanno dovuto ripiegare da tempo su mestieri più sicuri come l’infermiere o l’idraulico, a prescindere dal loro talento.
È presumibile che questa selezione basata sul censo diventerà sempre più severa, costringendo buona parte degli attuali precari della cultura a trovarsi un altro impiego, volenti o nolenti.
Alcuni invocano uno sciopero per ribellarsi a questa situazione drammatica. Ma ci sarebbe davvero un’adesione massiccia? Senza un’adeguata coscienza di classe è improbabile. E poi siamo sicuri che avrebbe una qualche efficacia? Presumo che la maggioranza degli editori e giornali fallirebbe, se fosse costretta per legge a pagare un “equo compenso” ai propri collaboratori.
Altri sostengono che invece spetti allo Stato fornire un reddito minimo di sussistenza agli scrittori e più in generale agli artisti. Ma vista la crisi e lo smantellamento dello stato sociale è improbabile che ciò possa mai avvenire in Italia, magari se ne potrebbe discutere in Danimarca o Svezia.
Concludo osservando che nessun poeta penserebbe mai di campare vendendo libri di poesie, eppure la poesia non è morta né sono scomparsi i poeti. Laovisier diceva che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Incrociamo le dita.
Valentino G. Colapinto
Devo dire che sono d’accordo con te su molte delle premesse del tuo discorso, ma paradossalmente io ne traggo la conclusione opposta: credo che in futuro sarà molto più facile vivere di scrittura.
La svalutazione dei contenuti a cui assistiamo ormai da molti anni a questa parte è stata una precisa scelta editoriale dei giornali: se tu non sei disposto a pagare i contenuti che pubblichi nel tuo giornale significa che non ritieni che i contenuti siano un valore. Oggi per i giornali il vero valore sono le foto di copertina, i titoli ad effetto, la pubblicità e gli allegati. Tutto il resto è considerato soltanto un valore marginale e come tale viene remunerato.
Per tornare al punto del discorso credo che in futuro si moltiplicheranno le possibilità per un autore di vivere della propria scrittura, a patto di avere bene chiaro che è necessario fare alcune mosse strategiche:
– eliminare o ridurre al minimo l’ingombrante presenza di agenti e di editori, fattore che permetterà (e già ora permette) agli autori di poter vendere i loro libri ad un prezzo molto più basso di quello attuale ma riuscendo a ricavare un margine di profitto personale molto più alto. Questa dinamica ha molti benefici: un prezzo d’accesso “ragionevole” permette di bypassare il punto pirateria (che a mio avviso va considerata semplicemente un fattore di sistema inevitabile) e, soprattutto, di guadagnare molto di più vendendo 1.000 copie rispetto a quanto guadagni ora vendendone 5.000 (giusto per fare esempi concreti)
– mettersi in gioco da un punto di vista del marketing, imparare cioè a promuovere la propria persona
– ragionare in termini quantitativi: se uno scrittore vuole vivere esclusivamente del suo lavoro deve pubblicare un libro ogni 6 mesi, ad esempio, o comunque essere sul mercato in maniera costante con diversi progetti editoriali. Questa sembra una banalità ma gente come Agatha Christie ha prodotto per decenni un libro ogni 6 mesi, per non parlare di autori come Stephen King o Ken Follet (e qui torniamo al discorso dei “negri”, i ghost writhers di Dumas).
– essere un “autore” è cosa diverso da essere uno scrittore: soprattutto in Italia si confondono spesso i due ruoli, che solo in alcuni casi sono sovrapponibili. Insomma “arte” e “professione” sono due cose molto diverse.
Poi ci sarà sempre una maggioranza di “figli di papà” che si potranno permettere di fare gli scrittori, i cantanti, gli attori, i registi… ma questo è sempre successo e continuerà a succedere, è una variabile di sistema che definirei costante e che è anche logica (se sono ricco di figlio ambisco ad avere un ruolo sociale che mi dia il massimo della visibilità del prestigio).
Il discorso sarebbe ancora lunghissimo e mi riprometto di scrivere un post a breve per continuare questa interessante discussione!
Non c’è che dire… quello che dici è la pura verità! Più leggevo, più mi saliva l’angoscia… sono una giornalista praticante pagata tra i 10 e i 20 euro a pezzo e l’unico (piccolo) talento che ho è la scrittura, la cosa più svalutata del mondo e che l’essere umano sa fare da secoli. Sono due anni che ci provo, ancora pochi mesi e getto la spugna: mi metto a fare la commessa, sempre che si trovi almeno quello!
Ma a me una cultura fatta dai figli di papà, sinceramente mi fa paura!
@Paola
Come ha giustamente fatto notare Valentino la “cultura”, nel 90% dei casi, è sempre stata fatta dai figli di papà. E’ un dato di fatto abbastanza oggettivo mi sembra. E non sto parlando soltanto del mondo della scrittura. Andate a vedere quanti sono i “figli di papà” nel mondo del cinema, della tv, della musica…
E comunque l’errore lo fa anche chi sta dall’altra parte della barricata, e cioè chi scrive: non vi pagano quello che ritenete giusto per scrivere? Non scrivete! Se quello che state facendo è un lavoro fatevi pagare.
Mi spiego: nessun pizzaiolo si metterebbe a fare pizze gratis, eppure tutti sono disposti a scrivere gratis. Un conto è farlo per un periodo di tempo limitato, perché comunque nessuno può pretendere tutto e subito. Ma da un certo punto in poi bisogna fare delle scelte.
Se uno sceglie di scrivere gratis o con compensi ridicoli per un giornale o per qualsiasi altro mezzo di informazione devo farlo con la consapevolezza che quello che fa non ha il minimo valore commerciale. E poco più di un hobby, oppure può essere considerato un investimento fatto su di sé in termini di visibilità. Il punto è che spesso questa consapevolezza manca totalmente.
“Grazie all’elevata scolarizzazione e alle facilitazioni tecnologiche, oggi tutti credono di poter diventare senza fatica scrittori, giornalisti, sceneggiatori, fotografi o registi. Tutti vogliono fare gli artisti o gli intellettuali, col risultato che sembra che nessuno lo sia più veramente.” cit.
La gente non è più disposta a pagare se può avere una cosa gratis anche se di qualità inferiore.
Questo è iniziato grazie ai giornali e dagli altri media che per garantirsi profitti hanno iniziato ad utilizzare contributi (foto, articoli, ecc ecc) di non professionisti per risparmiare.
Gli scrittori dovranno reinventarsi perchè di persone disposte a pagare più di 20 Euro un libro ne rimarranno poche, ma se gli si chiede 1,99 per un e-book ambiano idea
Infatti sono d’accordo… se tutti i collaboratori precari dei giornali si fermassero per un giorno, i quotidiani non andrebbe in stampa! Per ora sto facendo un investimento in termini di immagine e mi sono data una soglia temporale, oltre il quale non andrò. La storia dei figli di papà purtroppo è estesa a tutti i livelli, ma per fortuna con le dovute e piccole eccezioni.
Sono d’accordo quando dici che il guadagno sarebbe maggiore per uno scrittore che vende il proprio libro in formato ebook piuttosto che cartaceo… sono due mesi che ho il kindle, ho comprato almeno 7 libri in più in 60 giorni rispetto allo scorso anno.
@Cristiano
per gli infiniti misteri del mondo editoriale un autore potrebbe avere un guadagno netto molto più alto vendendo direttamente il proprio libro in formato ebook a 1,99 che in formato cartaceo a 20 euro…
Mah su molti aspetti è vero che in Italia è quasi impossibile vivere di scrittura, ma sinceramente, per come vedo che vanno le cose, è difficile vivere di qualsiasi cosa visto che neanche a lavare pavimenti si riesce a trovare uno straccio di impiego!
democratizzazione dello scrittore, industria editoriale, indotto….credo che siano tutti termini che poco e nulla hanno a che fare con la scrittura dico la scrittura Vera non quella dello scribacchino blogger che giustamente scrive e si esprime. La scrittura è un processo intimo, superbo e nello stesso umile, una maieutica misteriosa che si materializza sulla foma o una forma che si realizza creando a un contenuto a volte misterioso e stupefacente per lo scrittore stesso. Se scrivi pensando di presentarti da un editore si è sbagliato strada , se scrivi pensando a un determinato pubblico non cerchi la tua verità. l’onestà di chi scrive ha bisogno di coraggio e il coraggio ha poco a che fare con l’indotto e con le industrie. E qui parlo di Scritori e di Scrittura se invece parliamo di scrittura commissionata è tutt’altra cosa quello è un lavoro. un uso dell’intellettuale che deve essere pagato perchè da una part c’è una richiesta e dall’altra una risposta o per usare una parola del linguaggio industriale un ” servizio” che può essere ben fatto, interessante, scritto bene o addirittura artistico. In quanto al termine intellettuale è assai differente da quello di scrittore, Proust ne fa una descrizione mirabile…
è il primo post che leggo di questo blog, scoperto ora, e credo che ne approfondirò la lettura interessatissima…ma sul discorso del precariato vorrei dire a Paola che la capisco (e credo saremo in moltissimi), ho studiato Storia dell’Arte e ci ho provato per 4 anni a suon di stage, volontariato e progetti…nei musei, nell’editoria ecc., e poi messa di fronte alla realtà, e alla voglia di costruire qualcosa di mio, ho ceduto e ho trovato un contratto vero in un ambito diverso. Ciò che mi ha nauseata di questo mondo (nausea che ancora non passa dopo due anni di “stacco”) è che si tratta di lavoro, pur sempre meraviglioso, ma di lavoro, e invece le persone che ci lavorano(e soprattutto che pagano) quasi mai la vedono così. Proprio perché è lavoro sarebbe giusto che le persone venissero pagate per le loro capacità, che studiano anni e investono un sacco di soldi per formarsi e avere una professionalità, e se non basta fanno pure anni e anni di esperienza. A un certo punto la professionalità dovrebbe essere pagata, se no non è più lavoro. E allora perché farlo per gli altri e per due soldi, preferisco farlo per me e non essere pagata. Preferisco fare la volontaria che la precaria. Preferisco farlo per passione che per lavoro.